
Una Palestina unica e integra, dal fiume al mare!
Lo slogan nasce prima del 1948, nella lunga battaglia contro la partizione e colonizzazione della Palestina storica, durante Grande Rivolta Palestinese del 1936-’39 che aveva come stella polare il territorio all’epoca sotto mandato britannico.
Si sviluppa poi dentro l’attività politica della diaspora palestinese post-1948 ed entra a far parte dello Statuto dell’OLP nel 1964, rivendicando senza compromessi il ritorno ai confini storici della Palestina.

Gerusalemme capitale di Palestina!
La richiesta di una Palestina unificata con Gerusalemme come capitale è un fondamentale pilastro della lotta del popolo palestinese per l’autodeterminazione e la libertà nazionale. Gerusalemme, una città carica di significato religioso e culturale per musulmani, cristiani ed ebrei, rappresenta il cuore pulsante della Palestina. Per i palestinesi, Gerusalemme non è solo una città, ma il simbolo della loro identità e della loro storia.
Nell’ambito del Piano di Partizione del 1947 delle Nazioni Unite per dividere la Palestina storica tra la popolazione palestinese e i coloni sionisti, a Gerusalemme è riconosciuto uno status speciale e viene posta sotto il controllo internazionale. Con la guerra del 1948 le forze sioniste prendono il controllo della metà occidentale della città e dichiarano il territorio parte dello stato.
Durante la guerra del 1967, “Israele” occupa anche Gerusalemme Est, allora sotto il controllo giordano, ed estende la legge israeliana sul territorio della città in violazione del diritto internazionale.
Nel 1980, il governo di Tel Aviv approva la Legge di Gerusalemme, che afferma che “Gerusalemme, intera e unita, è la capitale di Israele”, formalizzando così la sua annessione di Gerusalemme Est.
In risposta, il Consiglio di sicurezza dell’ONU approva la Risoluzione n. 478 che dichiara la legge nulla, ma questo non muta la situazione.
Nel 1995, a conferma del sostegno degli imperialisti statunitensi all’entità sionista, il Congresso USA riconosce Gerusalemme capitale di “Israele”, a formalizzare tale passaggio ci penserà, nel 2017, l’allora Presidente Trump che procederà anche con il trasferimento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme.
Nel quadro del progetto di colonizzazione di insediamento, che punta alla cancellazione e sostituzione della popolazione indigena da parte dell’occupante, ai palestinesi che abitano a Gerusalemme Est non è stata concessa la cittadinanza israeliana: circa 420.000 palestinesi gerosolimitani hanno carte d’identità di “residenza permanente” ma posseggono anche passaporti giordani temporanei. Essi vivono in una condizione di apartheid, devono soddisfare una serie di requisiti per mantenere il proprio status di residenza con il continuo rischio di perdere il proprio diritto di vivere lì. Dal 1967 più di 14.000 palestinesi si sono visti togliere il loro status, mentre ogni ebreo, in tutto il mondo, gode del diritto di vivere in “Israele” e di ottenerne la cittadinanza in virtù della Legge del ritorno.
Inoltre la colonizzazione della città continua e passa per gli espropri e gli abbattimenti delle case dei residenti palestinesi, le continue incursioni e aggressioni dei coloni sionisti, la costante costruzione di insediamenti nella città.Circa 200.000 sionisti vivono oggi a Gerusalemme Est sotto la protezione dell’esercito e della polizia, l’insediamento più grande ne ospita 44.000.
Tali insediamenti fortificati, sparsi spesso tra le case dei palestinesi, impediscono la loro libertà di movimento e la loro sicurezza.

“Giovane o vecchio, tornerai, tornerai, oh palestinese”
Nello 1948 decine di migliaia di palestinesi erano brutalmente e ingiustamente espulsi dalle loro terre durante la Nakba e venivano sfollati nei campi profughi allestiti in Siria, Libano, Giordania, Gaza e Cisgiordania, dove ancora oggi vivono in 8 milioni. Questi rifugiati e i loro discendenti vivono in condizioni di esilio.
Il ritorno nelle proprie terre è un diritto definito come inalienabile, individuale e trasmissibile alle generazioni successive, affermato anche dalla Risoluzione 194 dell’ONU del 1948 ed entrato da subito nello Statuto dell’OLP.
I vari governi che si sono succeduti a Tel Aviv hanno sempre negato il diritto al ritorno per i palestinesi perchè questo significherebbe un arretramento per il progetto coloniale sionista. A questo proposito è utile ricordare che circa un milione e duecento mila palestinesi, il 20% della popolazione israeliana, vive al moneto nei Territori Occupati nel 1948. Non è un caso, quindi, che anche durante le trattative di Oslo, la questione dei rifugiati e dei loro diritti sia stata sempre accantonata.
Questa posizione opportunista è stata ed è al centro delle profonde critiche che milioni di profughi, sentendosi traditi e abbandonati, hanno mosso e muovono alle forze politiche palestinesi, in primis Fatah, che hanno intrapreso la strada degli accordi con l’occupante.
Oggi non c’è palestinese che non sia pronto a ribadire l’irrinunciabilità del diritto al ritorno, una vera e propria bandiera nella lotta per la liberazione. Solo attraverso il riconoscimento e il rispetto del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi si può costruire una Palestina libera e indipendente, dove ogni individuo possa vivere con dignità e libertà. No justice without return!



Tutti i prigionieri politici liberi!
I palestinesi rivendicano con determinazione la liberazione dei prigionieri politici come parte essenziale della loro lotta per l’autodeterminazione e la giustizia.
La detenzione è un pilastro fondamentale della strategia repressiva dell’IDF (Israel Defence Forces) contro il movimento di liberazione palestinese. Il sistema di apartheid, infatti, si sostanzia anche attraverso le carceri dell’occupazione. Arresti violenti, spesso notturni, interrogatori coercitivi, torture fisiche e psicologiche, processi farsa sono caratteristiche fondanti del sistema giudiziario militare israeliano riservato ai palestinesi. In prigione donne, uomini e bambini sono sottoposti ad abusi emotivi e fisici, private dell’assistenza sanitaria e spesso delle visite di familiari e avvocati. Inoltre spesso viene violato il diritto di difesa dei prigionieri sia in sede di interrogatorio che nei dibattimenti in aula.
Le testimonianze di ex prigionieri, filmati e fotografie hanno fornito prove delle terribili forme di tortura e maltrattamento subite dai prigionieri per mano delle forze israeliane: brutali pestaggi e umiliazioni, privazione del sonno e del cibo sono solo alcune delle vessazioni documentate.
Per reprimere i palestinesi l’entità sionista utilizza sistematicamente la detenzione amministrativa, in crescita esponenziale negli ultimi anni.

Questa consente all’esercito sionista di detenere individui senza accusa né processo, per un periodo di tempo indeterminato, rinnovabile di sei mesi in sei mesi da parte di una corte militare. Una persona può quindi essere detenuta addirittura per anni, senza essere a conoscenza delle accuse e senza possibilità di difendersi in tribunale.
Nonostante le condizioni in cui sono costretti, i prigionieri palestinesi mantengono la loro determinazione organizzando diverse azioni di protesta e resistenza all’interno delle carceri, trasformandole in un altro fronte della lotta di liberazione nazionale. Attorno a essi si stringe la solidarietà del loro Popolo e di chi lo sostiene.


Alcuni dati aggiornati al 17 aprile 2024. I dati non includono i prigionieri di Gaza rinchiusi nei campi militari o scomparsi dopo il 7 ottobre 2024 per mancanza di informazioni.
Fonte www.addameer.org/news/5327
Prigionieri palestinesi nelle carceri sioniste 9500
Detenuti amministrativi – 3.660
Detenuti come “combattenti illegali” – 849
Prigionieri bambini 200
Prigioniere 80
Materiale utile per approfondire:

FACT SHEET ISSUED BY PRISONERS’ INSTITUTIONS ON THE EVE OF “PALESTINIAN PRISONER’S DAY” ON APRIL 17, 2024.
17-04-2024
Link all’articolo
ON INTERNATIONAL WORKERS’ DAY: THE OCCUPATION HAS ARRESTED THOUSANDS OF PALESTINIAN WORKERS AFTER THE SEVENTH OF OCTOBER.
01-05-2024
Link all’articolo